Ve conto 'naltra storia

Ci ho preso gusto a tradurre le storie di Federica. L’altra volta ha raccontato di mobili, ora di calzature, tessuti e lampadari. Qui il thread originale su Twitter in dialetto veneto.

Eccomi qua. In un’altra parte di Veneto imbastardito tra tre province: Padova, Treviso e Venezia. Adesso vi racconto una storia.

Una storia veneta, una storia di schei, una storia di imprenditori, una storia di gente che ha fregato gente, una storia dove ad un certo punto si è messa in mezzo la politica. Una storia che sembrava bella all’inizio e che dopo è andata in malora.

Serve una premessa: durante la Serenissima Repubblica di Venezia c’erano leggi rigide per difendere l’arte vetraria di Murano. I vetrai dovevano custodire il segreto delle tecniche usate, ed era vietatissimo importare vetri esteri, chi non era iscritto alla Mariegola non poteva esercitare e chi si trasferiva all’estero, portando fuori i segreti del mestiere, veniva condannato a morte e imprigionati i familiari. Non si scherzava mica. Nemmeno con le sanzioni all’epoca.

La storia di oggi parla di queste cose. Bene. Per capire la storia di oggi però bisogna rinfrescare un po’ la memoria sul fenomeno della DELOCALIZZAZIONE VENETA.

Marca zoiosa et amorosa. Metà anni 90 metà anni 2000. Fine febbraio 2001. Trasferta di industriali di Treviso nella contea di Timosoara per l’apertura dell’anno produttivo. TI-MI-SO-ARA. Romania.

TI-MI-SO-ARA. Romania. Ottava provincia veneta. Magari quando recitavi in fila ti dimenticavi Belluno e Rovigo ma Timisoara ci finiva sempre dentro. Tutti in Romania all’epoca.

Manodopera a basso costo: con lo stipendio di un operaio italiano si pagavano 10 rumeni. Epserti specializzati nella produzione di scarpe e tessuti. Numero infinito di capannoni statali da riconvertire in laboratori senza fare tanti investimenti.

Regime fiscale preferenziale sui beni esportati e tecnologie importate. Stato Rumeno che con la fanfara accoglieva gli imprenditori veneti. 4 voli giornalieri Treviso -Timisoara e viceversa.

Bestemmie venete uguali a quelle rumene. Tutto a posto. Parte la campagna veneta in Romania. 1990-95 una media di 50 aziende si trasferiva lì. VENETO WENT TO ROMANIA.

Dal 1995 al 2003 cambia qualcosa. Iniziano a costruire case in Romania e Timisoara diventa piccola e limitata. Fuga dalla città.

Iniziano a comprare campi e stalle nei paesi vicini: a imbrogliare il contadino rumeno che non sapeva né leggere né scrivere, dandogli 100 marchi per un campo di terra facendogli firmare una carta di vendita. Comprata una stalla si costruisce un capannone.

Ma iniziano i problemi. Fuori dalla città l’operaio, abituato a lavorare nelle fabbriche statali, non è tanto specializzato e l’imprenditore veneto - per ovviare al problema - inizia il furto della manodopera tra un laboratorio e l’altro a colpi di aumenti di stipendio di qualche euro.

2009 fine del sogno.

Non è più conveniente restare lì. A dire il vero era dal 2006 che la Romania non era questo paese così amico del Veneto, ma avanti sempre!.

Iniziano quelli della scarpa-che-respira e a marzo 2009 cedono le produzioni alla VT Manufacturing. Che compra 230000 metri quadri di capannone, 3 milioni di scarpe prodotte all’anno e 1500 dipendenti. E che manda tutto in malora.

Il Governo decide di aumentare gli stipendi, torna lo spettro della burocrazia e la forte corruzione fa cambiare idea. Inoltre i Rumeni decidono di venire a fare gli imprenditori edili in Veneto. Tanto le bestemmie già erano comuni.

Il carovita in Romania porta due tipi di Rumeni in Veneto: quelli che sono diventati imprenditori e quelli che, pur di vivere, sono andati a lavorare prima in nero dagli imprenditori veneti e dopo, sempre in nero per non stonare, da quelli rumeni.

Arrivano anche le donne. Badanti e prostitute. Nel 2007 in Veneto abbiamo 25000 nuovi assunti. Rumeni.

Manca manodopera a basso costo = fine del business in Romania. E in Veneto cosa succedeva a quelli del calzaturiero e del tessile che aveva delocalizzato in Romania?

Qualcuno qui direbbe del karma… ecc. ecc. Finché i Veneti delocalizzano le produzioni, i suoi uffici, lo stile, la loro creatività, la loro arte, la loro bellezza venivano comprati per poco dalle multinazionali estere.

Gli imprenditori calzaturieri di Montebelluna producevano in Romania agli ordini dei francesi della Rossignol, Salomon, Decathlon e simili.

E quelli del tessile? Bene finché loro delocalizzavano in Veneto, arrivavano i laboratori cinesi a basso costo. Dalla Romania si torna a casa. Anzi no. Si va più distante. Bangladesh, Cina, Tunisia. Timisoara sostituita da Capo Bon per quelli del tessile.

E quelli dei lampadari? Meglio di tutti. Si sono dimenticati degli insegnamenti della Serenissima. Dove sono andati a farsi fare i lampadari perché costavano meno? Come novelli Marco e Niccolò Polo sono andati in Cina. Dove non ci sono mica i Rumeni.

E cosa hanno fatto: si sono fatti fregare i clienti e il mestiere. Dai Cinesi. Ma gli hanno fatto guadagnare schei. L’imprenditore veneto diceva a quello cinese: quanto mi fai pagare per questa merce? Loro gli dicevano dieci. I nostri gli dicevano “tu fatturi venti e dieci me li restituisci su un conto estero”. Furbi eh!

Ci fosse stato il Supremo Tribunale della Quarantia sarebbero finiti tutti impiccati tra le colonne di San Marco e di San Todaro.

E dopo cosa hanno fatto? Zero scrupoli. Importiamo lampadari fatti in Cina, sostituiamo le etichette e ci mettiamo quelle nostre con scritto “FATTE A VENEZIA” o meglio ancora MADE IN ITALY.

Perché vuoi mettere un lampadario con il marchio FATTO A VENEZIA? Richiama subito ad un prodotto fatto ad arte, fatto bene, con una storia millenaria alle spalle. E poi VENEZIA. Dio santo del cielo VENEZIA È VENEZIA.

Ma capita che ti chiamino perché hanno vinto un bando FSE della Regione Veneto e gli serve qualcuno che sappia qualcosina di export.

Peccato che quella “qualcuna” sia stata io. Che sono bastarda come una pecora. Che sono veneta anche sotto l’ultimo poro della pelle. Che gli imprenditori li ascolta e li sente e ci parla.

Peccato che quella “qualcuna” ha scelto da che parte stare. Quella “qualcuna” non si fa mai gli affari suoi. Quella “qualcuna” non gli tornava più di qualcosa.

Quella “qualcuna” che è appassionata di dogane, di origine dei marchi, di tutela del Made in Italy, di certificati, di diritto doganale… e che prende in mano un DAU (Documento Amministrativo Unico) e bollette doganali sull’import dalla Cina…

E che qualcosa non le torna. Perché vivendo in azienda vede che non si produce nulla, che lavorano solo in magazzino ad imballare materiale da spedire. Sepdizioni continue. In tutto il mondo.

Con e senza fatture.

E allora la “qualcuna” fa 1+1. E se da una parte si vergogna come ad andare a spasso con le chiappe al vento, dall’altra sale la rabbia. La rabbia e la cattiveria che vuole Giustizia.

Provo a parlarne con quella specie di consorzio… nessuno sa niente, nessuno vuole dirmi niente. Sono tutti allineati. Tutti sanno. Tutti sono complici della porcata.

Anche i sassi sanno che, in quel posto imbastardito tra le 3 province venete, nessuno produce più lampadari. E tutti tacciono. Perché tutti fanno schei lo stesso.

E allora mi arrabbio. Tanto. Ma tanto tanto. E una sera dei primi di aprile 2010 vado a Mestre in Camera di Commercio. Con le carte, documenti, certificati, prove. Cartine no, non era il luogo.

Sono stata lì dentro fino a tardi. Tornata il giorno dopo. E a giugno, il 25 giugno 2010 succede questo

Perché vi ho raccontato questa storia? Perché in tutto questo la Regione Veneto non ha mosso un dito. Nonostante un consorzio finanziato dalla stessa Regione a tutela del DISTRETTO VENETO DELL’ILLUMINAZIONE. Dove che nella poltrona del potere ha messo uno dei suoi.

Perché di tutte le piccole aziende delle tre province imbastardite, adesso non ce ne sta quasi più nessuna aperta. Per gravi errori degli imprenditori di queste zone. Perché chi fa schei facili, li perde anche facilmente.

Perché qui venivano ad elemosinare voti. E li prendevano con la storia che loro ce l’avevano più duro degli altri. Adesso non viene nemmeno il cane dello straccivendolo perché è brutto avere a che fare con i cadaveri. E domandargli schei e voti.

Perché qua non sventola più nemmeno la bandiera della Serenissima. Perché de questo pezzo di Veneto se ne sono dimenticati tutti. Viva sempre SAN MARCO.