Il bisogno della riflessione

È da mesi che mi giro e rigiro una relazione su un corso che ho fatto a tredicenni. È da mesi che scrivo documentazione di progetto e analisi, e mi sono accorto che non so più scrivere. È tremendo. Parlo e scrivo in chat, facendo anche riflessioni che mi sembrano intelligenti. Leggo romanzi, testi di poesia, saggi di Popper e Leibniz e mi ritrovo con il solito “ECCO! ora ho la chiave di analisi” e quando affronto la pagina si ferma tutto. Non che abbia perso le parole e l’argomentazione, ma mi appare tutto impastato con grumi di periodi non svolti, congetture disarticolate. Cosa ancora più grave: a metà mi ritrovo a pensare ma alla fine cosa voglio dire?.

Era già tutto previsto

Il poeta cantava

era già tutto previsto

dal momento che sapevo

quello che tu mi avresti detto

quelle cose che mi dici

che non siamo più felici

e anche se il Cocciante si riferiva all’amata che se ne andava con un altro, io sento la mia riflessione ripudiare la nostra storia e andarsene tra le braccia e la mente di altri. Certo, dopo il momento di rabbia e accusa, arriva il momento della giustificazione: ah, il covid… ah la guerra…, perché le cause esterne sono consolatorie e distanti. Un po’ come Dio, che mi ritrovo a bestemmiare come ultimo appiglio per cercarne l’esistenza, altrimenti sono costretto ad imputare a me, e me soltanto, la responsabilità.

L’economia dell’attenzione

Si è consolidata la teoria secondo cui l’obiettivo delle piattaforme, siano esse social, motori di ricerca o negozi online, non è vendere qualcosa quanto prendere la nostra attenzione. Questa attenzione è trattata automaticamente (ah gli algoritmi, signora mia!) e trasformata in dati, analytics e stimolazioni continue e pervasive (i più alla moda direbbero trigger). Ovviamente il mercato è una bestia che risponde a dinamiche darwiniane e offre anche servizi che aiutano alla concentrazione, gli stessi sistemi operativi hanno funzioni di sospensione delle notifiche, i servizi mail si collegano alle agende riservando spazi temporali di isolamento. Ma in quegli spazi si insinua l’ansia dell’esclusione. FOMO, fear of missing out, e già per essere sicuro dell’acronimo vado su google, digito, appare la voce su wiki, la clicco, scorro la bibliografia, le note, ah ma vediamo come la traduce in italiano… e i dieci minuti sono passati. Un’occhiata veloce a twitter, che tanto ormai ho perso il filo e passano altri cinque minuti. Vabbé leggo un capitolo di quel saggio per riprendere il contesto e la mezz’ora è passata assieme all’arrivo della depressione. Rileggo quello che avevo scritto. È una merda.

L’economia della banalità

Non si può immaginare nulla di tanto strano e poco credibile che non sia stato detto da qualche filosofo.

Lo ha detto Descartes, citato da Popper al capitolo 15 in Congetture e confutazioni. Quando ho parlato con i tredicenni a cui mi riferivo sopra, ho notato che non è vero che hanno una soglia di attenzione bassa e nemmeno una noia atavica e radicale. Hanno una confidenza con la banalità. La mole di contenuti è immensa e nessuno è in grado di produrre così tanto senza alla fine rimescolare nel solito pentolone (a meno che non si sia Bertrand Russel o Leibniz); i post, i video, i podcast sono un costante affanno prodotto dalla paura di essere tagliati fuori. Queste stesse righe lo sono ma il mio scopo è un altro.

La dialettica con il proprio fallimento

I tempi ci espongono a costanti chiavi di lettura, analisi, dati, opinioni che sono usati per affermare. Ammettere un errore è pericolosissimo perché nel campo della paura di essere tagliati fuori, il minimo accenno al proprio limite viene letto come una dichiarazione di resa. Tutto quello che si era detto prima non conta più. Internet non dimentica viene ripetuto in continuazione e ci sarà sempre uno screenshot, una wayback machine su Archive che rinfaccerà quanto si era detto e scritto. Ammettere l’errore annulla tutto, invece di stabilire una dialettica con il proprio fallimento. Questa attività, se fatta pubblicamente, dovrebbe avere una funzione evolutiva, non solo per chi la svolge ma anche per chi ne assiste. Siamo tutti umani, accumunati dalla nostra finitezza - non ci sarà un sequel come dice Gervais - e senza andare alla tragica condizione di mortali c’è un’altra condizione che fa parte di ogni singoloo essere: l’errore. Ho detto tante cazzate, ho scritto tante cose, alcune le ho cancellate altre le ho lasciate. La cancellazione ha riguardato quello di cui mi compiacevo: erano cose buone ma avevo trovato altri che le avevano dette meglio, con maggiore impatto, e quindi non erano utili ad altri e dannose per me. Le cose che ho lasciato sono quelle che mi imbarazzano: scritte o parlate confusamente, con saccenza, con il piglio di chi la sa lunga; quando mi ricapitano (per casualità) le guardo principalmente per sentire il mio cuore sanguinare e la mente urlarmi se le vedrà tua figlia sei fottuto.

Informazione e conoscenza

L’informazione informa i fatti e non sui fatti, perché i fatti non esistono.

Questo è Carmelo Bene che cita Derrida (vado a memoria perché non voglio perdere il filo cercando su YouTube, ma si può controllare facilmente) e mi serve per riprendere il discorso sulla banalità - e chiudere questo sproloquio. In un’epoca di continua serialità, di tentativi di slow qualsiasi cosa, sia esso riferito al giornalismo, alle teorie, ai metodi e ai processi, mi sono ritrovato a non avere un problema di ritmo quanto di conseguenza. Inizialmente pensavo fosse un problema di ordine, ma come mi ripeteva sempre il mio fustigatore Andrea Raimondi

ah zi, se pensi di aver pensato bene allora me lo devi scrivere bene: ce sta la premessa, quello che voi dì, quello dove voi arrivà e quello che potrebbe buttà giù tutto quello che hai scritto. Altrimenti è merda, te stai zitto e studi.

Ecco, quindi il mio blocco è che in questa produzione enorme, in questa ansia di essere tagliato fuori, ci sta l’isolamento che certamente porta alla riflessione, ma allo stesso tempo mi crea una specie di lingua nuova, che conosco solo io e che costringerebbe altri ad impararla.

Il brutto della riflessione è che porta ad una riconfigurazione delle proprie idee, alla dialettica con il proprio fallimento e - molto spesso - usa metodi e processi diversi da quelli usati prima.

La riflessione ha il proprio nemico nell’abitudine.

Pensavo fosse un’ottima sentenza ad effetto per la chiusura, ma mi è venuto in mente che l’abitudine è amica della pigrizia, ma si aprirebbe un altro discorso. Intanto mi accontento di aver battuto la pigrizia, almeno per il tempo di scrittura di queste cazzate.

E vediamo se poi riesco a scrivere cose decenti ora che torno a fare cose più utili di un post su un bloggetto velleitario.